Quando il PCI era sovranista e votava contro l’adesione alla CEE

Dopo la svolta euro-atlantica di Berlinguer e caduto il muro di Berlino, la sinistra italiana ha scelto di identificarsi nel “mito dell’Europa”, visto come nuovo Sol dell’Avvenire fatto di progresso, pace e ricchezza per tutti. Ricordate Prodi? «Con l’euro lavoreremo la metà e guadagneremo il doppio». EPPURE, fin dalla fondazione della CEE nel 1957 (allora più nota come MEC), il PCI fu categoricamente contrario al progetto di integrazione europea perché si accorse subito della sua natura puramente capitalistica, che sarebbe sfociata nell’odierno regime finanziario fatto di asfissianti vincoli di bilancio e moneta-debito. Tale posizione rimarrà ferma fino alla suddetta svolta “eurocomunista” e pro NATO di Berlinguer. Persino Napolitano, ancora negli anni ’70, era contrario allo SME perchè lo vedeva per quello che era: una mannaia sui diritti del mondo del lavoro.
Questi articoli di Alessandro Mustillo ci ricordano le analisi precise e profonde, assolutamente valide ancora oggi, che il PCI fece in quel lontano 1957, per bocca di Berti, Pajetta e Ingrao. Tenetele presenti, quando date del rossobruno-nazionalista-fascista-populista a chiunque osi mettere in dubbio la Santa Unione Europea.
da “I comunisti sono europeisti?”
Il mito dell’Europa nata sulla spinta ideale progressista, deve cedere il passo alla realtà delle cose. Nel 1957 la ratifica dei Trattati di Roma, con cui venne istituita la CEE e l’Euroatom, vede il voto contrario e la netta opposizione del PCI, come altrettanta opposizione avviene da parte del PCF in Francia, allora i principali partiti comunisti dei paesi coinvolti. Un’opposizione che si era registrata fin dagli albori del processo d’integrazione anche in riferimento alla CECA […] Si parlava allora non di CEE ma di MEC poiché la Comunità Economica Europea era conosciuta principalmente con il nome di Mercato comune, una scelta tutt’altro che casuale e che non mascherava la reale natura dell’operazione, che più tardi ha voluto caratterizzarsi per i suoi fini “nobili”. Berti, tra gli applausi dei deputati comunisti alla Camera, affermò: «Non ha senso dire che il MEC è una cosa e il capitale monopolistico un’altra: il MEC è la forma sovrannazionale che assume nell’Europa occidentale il capitale monopolistico.» Era il 1957, il processo di integrazione europea era appena iniziato ma le sue finalità apparivano già chiarissime. Basterebbe sostituire l’espressione “Mercato Europeo Comune”, oggi desueta, con “Unione Europea” e avremmo una sintesi eccezionale della natura reale del processo di integrazione europeo. Una realtà che i comunisti avevano perfettamente chiara nel 1957 e che ancora oggi, nonostante l’evidenza empirica, sfugge a molti sinistrati.
I trattati di Roma furono approvati a maggioranza con voto favorevole della DC e del MSI e con l’astensione del Partito Socialista Italiano.
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Il PCI definisce senza mezzi termini la libertà di circolazione come «la libertà dei monopolisti». L’analisi semplice e chiara contenuta in questo punto è validissima ancora oggi. «La “libera circolazione dei capitali” significa che i monopoli di ognuno dei sei paesi sono liberi di trasferire i loro capitali da una zona all’altra scegliendo quella dove esistono le possibilità di realizzare maggiori profitti. Date le condizioni di inferiorità nelle quali si trova la nostra economia è possibile che attraverso questa libera circolazione di capitali, vi sia nel nostro paese una penetrazione di tipo imperialistico di capitale straniero, soprattutto tedesco. In secondo luogo è possibile che si verifichi da parte dei monopoli italiani una fuga di capitali dall’Italia.
Sulla questione dell’abolizione dei dazi doganali e delle barriere al mercato comune il Partito Comunista spiega gli effetti che avranno. «L’eliminazione di queste tariffe provocherà una concorrenza molto più aspra tra le diverse ditte operanti nei paesi aderenti; se si esamina la struttura industriale e la potenza economica delle varie nazioni, si comprende che la posizione dell’Italia è in generale la più debole di tutte quante tanto è vero che finora i dazi doganali italiani sono stati i più alti proprio per proteggere la nostra produzione dalla più robusta concorrenza straniera»
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In definitiva concludeva l’analisi del PCI «Il coordinamento economico di cui si parla nel trattato si risolverà in pratica in intese sempre più strette tra i vari monopoli per la spartizione del mercato a scapito dei piccoli e medi produttori sostituendo così alla protezione doganale una spartizione delle sfere di influenza tra i grandi monopoli.»
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Così come la libertà di circolazione delle persone era già messa in relazione al problema dell’immigrazione interna alla sfera comune, con le sue ripercussioni sui livelli salariali e sui diritti dei lavoratori.
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Per queste ragioni il PCI nel 1957 votò contro l’approvazione dei trattati europei, ma la sinistra italiana che pure si richiama a vario titolo alla tradizione e alla storia del PCI non lo ricorda.
da “1957: quando il PCI disse no all’Europa”
Allora i comunisti non avevano alcun dubbio sull’origine del processo di integrazione dell’Europa occidentale, che Pajetta definiva negli interventi alla Camera “la piccola Europa”, proprio per metterne in luce la parzialità rispetto alla chiusura ad est. Si trattava di un processo voluto dal grande capitale e appoggiato con forza dagli Stati Uniti in funzione anti-sovietica per rispondere all’integrazione economica tra paesi socialisti all’est. Un progetto che teneva insieme interessi monopolistici del grande capitale, privato degli sbocchi naturali sul continente e sulle colonie, con quelli al riarmo specie della Germania in funzione anticomunista, nel quadro della comune alleanza militare con gli USA per il tramite della Nato [Ancora oggi, i più grandi sostenitori del “progetto europeo” sono gli Stati Uniti e la NATO, per loro interessi economici e geopolitici, con buona pace di chi sventola il santino di Altiero Spinelli e del “grande sogno dell’Europa dei popoli” N.D.R.]
I comunisti – dice Berti, relatore in Parlamento della mozione comunista contro la firma del Trattato di Roma – sono contro il MEC «perché sono contro il tentativo dei monopoli di asservire il progresso tecnico, l’automazione, l’energia atomica ai loro propri fini creando una comunità sovrannazionale sotto la loro direzione […] Alla base del MEC esistono obiettivi elementi di crisi: si cerca un mercato più vasto perché si sono perduti i territori dell’Europa orientale e i territori coloniali; ma appunto per questo ci si contenta in senso antisocialista e antidemocratico e si approfondisce la frattura nel mondo e si domanda alle masse lavoratrici di pagare le spese di questa operazione.»
Berti affronta il quadro spinoso del rapporto sovranità nazionale apertura internazionale in modo chiarissimo, e con una capacità d’analisi che oggi non si intravede minimente nei dirigenti della sinistra radicale post-comunista e opportunista. Come si coniuga l’internazionalismo tradizionale del movimento comunista con la contrarietà al processo unitario tra i paesi europei? Un dilemma a cui ancora oggi in tanti non riescono a rispondere senza vedere contraddizioni, lì dove al contrario è lampante la soluzione al problema. I comunisti sono internazionalisti ma non per le unioni internazionali dei capitalisti. I comunisti sostengono la lotta comune in ogni paese del mondo, ma non per questo non comprendono quali processi si celino dietro l’integrazione europea. Oltre le illusioni e le favole, i comunisti guardano ai rapporti di produzione.
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Il 21 luglio 1957 l’Unità apriva il giornale con un titolo a lettere cubitali: «Confindustria punta sul MEC per liquidare l’industria di Stato» basandosi sulle dichiarazioni di Malagodi, segretario del Partito Liberale «i cui legami con la Confindustria – scrive l’Unità – sono noti a tutti». Malagodi «ha mostrato con grande chiarezza il vero volto dell’operazione che il governo si accinge a varare […] Dai trattati – egli ha rilevato – non possono che derivare logiche conseguenze di politica interna poiché non è possibile seguire un indirizzo (che è quello della massima libertà ai potenti monopoli interni e internazionali) per applicare il Mercato comune e l’Euroatom, e uno diverso all’interno del paese.» Il segretario liberale aveva illustrato alla Camera la necessità di aprire una stagione di liberalizzazioni, dismissioni delle imprese di Stato e evitare ogni nuova forma di nazionalizzazione.
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Nel suo intervento del 25 aprile in parlamento, Pajetta rimarca il giudizio del PCI con toni molto forti e netti. «L’esame della situazione e la stessa storia ci autorizzano quindi a porre queste domande: a che cosa servirà questo strumento, il Mercato comune? Chi lo impugnerà? Contro chi verrà impugnato? Noi il fascino di questo europeismo lo respingiamo e non possiamo allinearci dietro la stessa barricata per difendere gli interessi della Confindustria nel nostro paese. Sbaglia profondamente chi pensa che un’economia diretta da forze imperialiste possa essere un elemento di progresso nell’avvenire […] è difficile pensare alla prospettiva di un’economia diretta senza le leve della tariffa doganale, dei contingenti, della politica valutaria. Le classi popolari all’interno del Paese e tutta l’Italia nell’ambito della “piccola Europa” pagheranno caramente l’approvazione di questi trattati.» Pajetta esprime bene l’impossibilità dei popoli di scegliere un cammino differente da quello capitalistico una volta ingabbiati nel meccanismo del mercato comune. Un elemento oggi estremamente acuito dalla perdita della sovranità monetaria con l’introduzione dell’euro.
La dichiarazione finale sul voto comunista è data il 30 luglio dall’allora capogruppo alla Camera Pietro Ingrao con queste parole: «Votando contro questi trattati intendiamo indicare alla classe operaia una prospettiva di autonomia e di lotta, intendiamo chiamare la classe operaia a battersi assieme a tutte le forze sane e minacciate da questi trattati per dare un corso diverso alla politica internazionale.»
da “Comunisti e Europa, considerazioni finali”
Fin da subito la nascente CEE cercò di utilizzare il contrasto tra condizioni e livelli salariali dei lavoratori per abbassare il costo del lavoro e ottenere una leva di ricatto contro le rivendicazioni operaie. Lo fece inizialmente con le colonie francesi, e durò pochi anni senza riuscire a dispiegare a pieno i suoi effetti perché nel 1962 l’Algeria ottenne la sua indipendenza. Paradosso della storia ha voluto che questa fase si riprendesse con forza proprio con la caduta del socialismo nell’est Europa, terreno naturale di espansione dell’imperialismo europeo.
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Ciò che la politica di sovranità sulla moneta aveva evitato, non senza conseguenze sui lavoratori, è stato reso possibile con l’introduzione dell’euro. L’Europa dei monopoli, di quella che già il PCI nel 1957 giustamente definiva la “libertà per i monopolisti” ha avuto un ulteriore sviluppo privando gli stati della possibilità di intervenire sulla moneta. Il risultato è stato un’ulteriore crescita della concentrazione monopolistica a scapito della piccola impresa, una perdita di posizioni dei paesi con più elevato livello di piccole e medie imprese, che hanno risentito maggiormente del combinato dell’introduzione della moneta unica e dell’allargamento delle aree di libera circolazione.
Il risultato è oggi un’Europa dei grandi monopoli nazionali e transnazionali che comprime i diritti dei lavoratori, che costringe al fallimento migliaia di piccole imprese e che concentra sempre in mani più ristretta la ricchezza prodotta, generando disoccupazione, precarietà, distruzione.
Anche la pretesa di pace che l’Unione Europea sostiene di realizzare e che in questi giorni ci viene propinata a reti unificate dagli spot europeisti del governo e della UE nasconde ben altro. Come disse giustamente Pajetta nel 1957 «Sbaglia profondamente chi pensa che un’economia diretta da forze imperialiste possa essere un elemento di progresso nell’avvenire», e aggiungo sebbene fosse già sottointeso, strumento di pace. L’Unione Europea ha dimostrato di essere pronta a scatenare e sostenere conflitti in nome degli interessi dei grandi monopoli che rappresenta. Lo ha fatto negli anni passati in Iraq, in Afghanistan, negli innumerevoli interventi di natura imperialistica sul continente africano, e oggi anche sul suolo europeo con il sostegno aperto garantito alle forze più reazionarie in Ucraina in nome della difesa di quegli interessi.
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Pajetta criticando il PSI e le forze di sinistra che non si opposero o votarono favorevolmente all’ingresso nella CEE disse: «Non vedere questi pericoli, essere sordi a queste indicazioni significa voler soltanto appiccicare un cartellino con sopra scritto “speranza” a questa macchina al cui volante siedono forze ben precise: queste forze non dimentichiamolo, sono i Valletta, sono i Marinotti, sono i potenti monopoli tedeschi, sono quelle forze che appoggiarono ogni politica più retriva e più antipopolare, che oggi sostengono il mercato comune.» Basterebbe sostituire Valletta e Marinotti con Marchionne e Profumo, oppure Benetton, Marcegaglia, De Benedetti e il resto è ancora valido. Con l’aggravante che nel 1957 il Mercato comune era oggettivamente un qualcosa di sconosciuto, dove solo l’analisi economica dei rapporti di produzione e dei rapporti di forza in quel processo, poteva dare un’indicazione. Oggi la natura dell’Unione Europea è sotto gli occhi di tutti, come i risultati delle politiche europee.
Il sogno di un’Unione Europea progressista e pacifica è un’illusione che non è mai appartenuta ai comunisti. Chi oggi cerca di dipingere l’antieuropeismo dei settori più coerenti del movimento comunista in Italia e a livello internazionale, come posizione estremistica, estranea alla nostra storia e tradizione politica, o peggio come cedimento alla destra e alle forze definite populiste, dimentica che i comunisti hanno compreso fin dall’origine la reale natura della UE. E fino a quando le loro posizioni sono state coerenti ideologicamente con il patrimonio teorico e di analisi del marxismo si sono opposti al processo di integrazione europea. La destra, che oggi si scopre paladina della sovranità nazionale, al contrario fu complice della creazione della CEE in funzione marcatamente anticomunista, sia a livello internazionale, per la sua opposizione all’URSS e al blocco comunista, sia interna, con il fine di arginare le possibilità di trasformazione della società in senso socialista.
Ma oggi una sinistra colpevole e complice dimentica tutto questo e consente alle forze neofasciste di rifarsi una verginità politica, attacca chi coerentemente mantiene una netta contrarietà all’Unione Europea dipingendolo come settario, eretico, o peggio ancora. Nel dare il proprio sostegno al processo di integrazione europea e nel costruire artificialmente il mito dei nobili ideali all’origine dell’Unione Europea, la sinistra radicale post o cripto comunista contribuisce a farsi portatrice dell’inganno storico che subiamo, di cui diviene parte attiva. Al servizio, oggi come ieri, dei padroni di questa Europa, dei grandi monopoli industriali e finanziari le cui regole sono divenute diritto comune a scapito dei lavoratori. Una enorme responsabilità storica.
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Pubblicato da L'Uomo Mascherato

Non posso dire molto. Sono un uomo. E sono mascherato.

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