Contro la LUIP (Lingua Ufficiale dell’Impero Planetario)

Per lavoro e per passatempo ho spesso a che fare con comunicati stampa da rielaborare per trarne articoli leggibili. A parte l’italiano spesso traballante, passo la maggior parte del tempo a ritradurre in italiano il loro inglesorum onnipresente, opprimente, deprimente e, soprattutto, superfluo e fuori luogo! Se nella nostra lingua abbiamo già una parola che spiega benissimo un concetto, perchè me la devi sostituire con quella di una lingua straniera? A parte quei termini ormai entrati nell’uso comune e che sarebbe difficile tradurre (Bed & Breakfast, computer, zapping, call center ecc.) o quelli con un preciso valore connotativo (tweet, web ecc.), il linguaggio del marketing e di chi si sente “figo” perchè usa termini esotici (senza rendersi conto di essere solo un provincialotto) arriva a livelli davvero ridicoli e imbarazzanti di sudditanza culturale verso la lingua della globalizzazione: asettica, uniformante, brutta, aliena alla nostra storia e identità. E io ritraduco!
Sono arrivato persino a fare il finto tonto e chiedere all’addetta stampa di turno di rimandarmi il comunicato in italiano.
E quella: ma è in italiano, solo il titolo dell’iniziativa e qualche altra parola è in inglese.
E io: e che senso ha, dato che si svolge in Italia?
E quella (prevedibilissima): perchè l’iniziativa ha un respiro internazionale e si rivolge anche all’estero.
E io: bene, allora è un’ottima occasione per far conoscere la nostra bella lingua anche agli stranieri (sottinteso: che si sbattano un po’ anche loro per tradurci!). Sarebbe d’uopo che usaste almeno il bilinguismo, con precedenza all’italiano. Così comunicate con tutto il mondo e non fate la figura dei provinciali dell’Impero che usano ormai per riflesso automatico la lingua del padrone (quest’ultima frase l’ho solo pensata).
Ma il fondo si tocca quando si arriva alle iper-correzioni per ingraziarsi la LUIP (Lingua Ufficiale dell’Impero Planetario). Così i “media” diventano “midia”, i “summit” “sammit” e “junior” “giunior”… come se le parola derivassero dall’inglese e non dal latino!

Il punto è questo: «Un’operazione del genere rappresenta l’ultimo atto di quella colonizzazione culturale angloamericana avvenuta sulla scorta degli esiti della Seconda Guerra Mondiale. Di fatto la catastrofe militare della prima metà del ‘900 ha ridotto drasticamente l’autonomia intellettuale e culturale dei popoli europei. Ciò che spesso viene chiamato (con discutibile semplificazione) ‘pensiero unico’, è in effetti una pura e semplice trasposizione del modello concettuale prevalente nella tradizione angloamericana all’intero mondo occidentale. Scientismo, obiettivismo, riduzionismo, liberismo non sono pensieri disincarnati, senza patria né tradizione: sono tratti costitutivi di specifiche tradizioni culturali, che si sono trasformate in luoghi comuni globali grazie ad un’opera di colonizzazione culturale sistematica, di cui l’inglesizzazione forzosa del pensiero rappresenterebbe semplicemente il compimento ultimo. Dunque, l’accusa iniziale di provincialismo va precisamente capovolta: è chi preme perché tutti si pensi e discuta nel suo inglese da pausa caffé ad essere tragicamente provinciale. Si tratta di emuli inconsapevoli e presuntuosetti dell’Americano a Roma di Sordi. Solo che oggi non fanno più ridere, perché hanno il potere o lavorano per chi ce l’ha» (Andrea Zhok, articolo completo qui).

La Pagina Facebook di “Impariamo l’italiano” ha fatto una galleria fotografica illuminante su alcuni dei più famosi anglicismi inutili e io nel mio piccolo ho fatto un “censimento” di #AutostimaLessicale.  Infine, riporto due brevi articoli che inquadrano la questione in modo esemplare.

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Importante riflessione di Andrea Zhok sul rapporto fra popoli colonizzati e colonizzatori e su come i primi finiscano per fare propria la lingua dell’oppressore sviluppando anche senso di colpa e autorazzismo. È il nostro caso.

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La pervasione dello yankee come lingua coloniale globale

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Dego Fusaro: Prima l’italiano. Riprendiamoci la nostra lingua

È ora di reagire all’imperversante tirannia della lingua inglese, emblema della mondializzazione dei corpi e delle menti. È giunto il momento di opporsi criticamente all’invasività dell’inglese coatto dei mercati e dello spread, della spending review e dell’austerity. Apoteosi dell’ “esterofilia” e dell’ “apatriottismo” – parole che prendo in prestito dal Gramsci dei “Quaderni” -, l’inglese operazionale dei mercati nulla ha, ovviamente, a che vedere con l’inglese culturale di Wilde e di Shakespeare: è, al contrario, un inglese aprospettico e asimbolico, che gli inglesi stessi, con giusto disprezzo, chiamano “globish”.

L’inglese – si dice – dovrebbe servire a porre in dialogo le culture e favorirne il confronto: il suo obiettivo è, invece, oggi l’annichilimento delle culture e delle identità nazionali, di modo che sopravviva un’unica cultura, quella dello scambio e dell’economia. Che è, poi, l’annullamento della cultura, se è vero, come è vero, che essa può esistere solo nella pluralità delle culture in dialogo tra loro. Non v’è dialogo ove i plurali siano meri riflessi del medesimo, del consumatore apolide e asimbolico. Si crea, anzi, un monologo di massa fintamente multiculturale, che tutto riduce al “monocromatismo assoluto” (Hegel) della società a capitalismo integrale e a pluralità livellata.

L’uso coatto della lingua inglese – diciamolo senza perifrasi – serve oggi a rendere subalterni i popoli, conferendo, come con il latinorum, un’aura di sacralità autorevole alle scelte irresponsabili delle politiche neoliberiste (spending review and austerity), presentandole come necessitate, sistemiche, oggettive e addirittura intrinsecamente buone. Riprendiamoci dunque la nostra lingua e, con essa, la nostra dignità sovrana: parliamo italiano e dialoghiamo con le altre culture senza obliare la nostra.

Di qui occorre ripartire per un riscatto dei popoli. Nelle lingue nazionali, ce l’ha insegnato Herder, è da ravvisare lo scrigno in cui sono custoditi i tesori delle civiltà, i beni più preziosi del nostro passato.

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Alessandro Montanari: Bandire la lingua del padrone. Parlare italiano per pensare italiano 

Una cosa sulla quale non riflettiamo abbastanza è che non ci stanno governando con i manganelli ma, assai più semplicemente, con le parole. Parole truccate che, scivolando tra paternalismo e terrorismo, mirano comunque allo stesso fine: l’asservimento.
Basta rileggere Manzoni, cantore del locale come teatro dell’universale, per capire che la trama è vecchia quanto il mondo. Davanti a quel sempliciotto di Renzo, infatti, don Abbondio ricorre al latinorum per incutere confusione, soggezione e infine controllo. Oggi, invece, a funzionare come incantesimo di massa è il tecno-inglese di Wall Street: la lingua del padrone per esprimere la volontà del padrone. Dobbiamo fare il Jobs Act e la spending review se non vogliamo il downgrade del rating, l’impennata dello spread o addirittura il default.
Renzo, che non era colto ma neppure fesso, intuì subito che il latinorum di ieri, così come il tecno-inglese di oggi, nascondeva la fregatura. Quali intenzioni volevano coprire lorsignori con tutti quei paroloni che un paese di anziani madrelingua certo non poteva comprendere? Ve lo dico in italiano. Volevano tagliare diritti e redditi dei lavoratori per avere a disposizione manodopera ricattabile e sostituibile; e ci sono riusciti. Volevano cambiare a piacimento i governi instillando nell’opinione pubblica il terrore dei mercati; e ci sono riusciti. Volevano alimentare il debito pubblico (i “successi” dell’austerità parlano chiaro) per ottenere privatizzazioni a prezzi di saldo; e stanno per riuscirci.


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Pubblicato da L'Uomo Mascherato

Non posso dire molto. Sono un uomo. E sono mascherato.

Una risposta a “Contro la LUIP (Lingua Ufficiale dell’Impero Planetario)”

  1. D’accordissimo, ma “summit” non è latino, ma inglese (e in questa lingua è un francesismo). Per esser latino dovrebbe essere la sostantivazione di una forma coniugata alla terza persona dell’indicativo presente di verbi come *“summere” o *“summire”, nessuno dei quali esiste.

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